Italia nella Seconda guerra mondiale: tra alleanze, tradimenti e resistenza

Introduzione
La partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale è una delle vicende più controverse e drammatiche della sua storia contemporanea. Entrata in guerra nel giugno 1940 accanto alla Germania nazista, l’Italia fascista si avventurò in un conflitto globale per il quale non era preparata né militarmente né economicamente. La narrazione ufficiale parlava di “otto milioni di baionette”, di un impero da espandere e di un ruolo centrale nello scacchiere europeo. La realtà fu molto diversa: sconfitte militari, malcontento popolare, isolamento internazionale e infine un clamoroso cambio di alleanze. Dopo il crollo del regime di Mussolini nel luglio 1943, l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati, dando avvio a una guerra civile tra fascisti e antifascisti, tra occupazione tedesca e resistenza partigiana. Questa pagina complessa della nostra storia, fatta di ambiguità, eroismi e tragedie, merita di essere raccontata senza retorica, ma con la consapevolezza del suo impatto duraturo sulla coscienza nazionale. Come scrisse lo storico Claudio Pavone, “fu guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe, tutte insieme”.
L’ingresso in guerra: ambizioni imperiali e realtà strategica
Il 10 giugno 1940 Benito Mussolini annunciò l’entrata dell’Italia in guerra al fianco della Germania hitleriana. “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria,” dichiarò dal balcone di Palazzo Venezia. L’Italia, uscita da un decennio di propaganda espansionista e da campagne coloniali come la guerra d’Etiopia e l’intervento in Spagna, puntava a guadagnare territori nei Balcani, in Africa e nel Mediterraneo. Ma dietro la retorica imperiale si celava una realtà fragile: l’esercito era male equipaggiato, la marina divisa, l’aviazione obsoleta. L’economia italiana non era pronta a sostenere un conflitto prolungato. Nonostante ciò, Mussolini confidava in una guerra breve e in un rapido bottino territoriale. Tuttavia, le prime campagne militari — contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e in Africa settentrionale — si rivelarono disastrose. Il peso maggiore fu spesso sostenuto dalle truppe tedesche, che dovettero intervenire per evitare il collasso del fronte italiano. Come annotò lo stesso Mussolini in una lettera privata nel 1941: “Ho bisogno di qualche vittoria, ma temo che non abbiamo gli strumenti per ottenerla.”

Le campagne di guerra: disfatte e logoramento
Dalla campagna di Grecia del 1940-41, l’invasione maldestra dell’Egitto, alla catastrofe sul fronte russo, la partecipazione italiana al conflitto fu segnata da fallimenti strategici e da pesanti perdite umane. L’attacco alla Grecia, lanciato senza coordinamento e in pieno inverno, si trasformò in una disfatta che costrinse la Wehrmacht a intervenire. Anche in Africa settentrionale, le truppe italiane si trovarono rapidamente in difficoltà contro gli inglesi. Nonostante alcuni successi temporanei insieme all’Afrika Korps di Rommel, la situazione si deteriorò dopo El Alamein (ottobre-novembre 1942), segnando la fine delle ambizioni coloniali. Ancora più tragica fu la sorte dell’ARMIR (Armata italiana in Russia): inviata nel 1942 per affiancare le forze tedesche nella campagna contro l’URSS, subì enormi perdite durante la ritirata dal Don. Circa 90.000 soldati italiani morirono o scomparvero nel gelo e nella disperazione. L’opinione pubblica iniziò a perdere fiducia nel regime. La guerra diventava sempre più impopolare. Come scrisse Curzio Malaparte nel 1943: “Il soldato italiano combatte con coraggio, ma con il cuore altrove, a casa, lontano da questa follia.”
La caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre 1943
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Benito Mussolini. Dopo oltre vent’anni di regime, il Duce fu arrestato per ordine del re Vittorio Emanuele III. Al suo posto fu nominato il maresciallo Pietro Badoglio, che avviò segretamente i negoziati con gli Alleati. L’8 settembre 1943 fu annunciato l’armistizio: l’Italia usciva formalmente dalla guerra al fianco dell’Asse. Ma la comunicazione fu improvvisata, ambigua, senza ordini precisi alle forze armate. L’esercito italiano, disorientato, si dissolse. In poche ore i tedeschi occuparono il Centro-Nord, deportando militari e civili. Mussolini fu liberato dai nazisti nell’operazione “Quercia” e messo a capo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un governo fantoccio con sede a Salò. Iniziò così una nuova fase del conflitto, tragica e fratricida: una guerra civile. L’Italia si trovava divisa in due: a sud il Regno del Sud, governato da Badoglio sotto controllo alleato; a nord la RSI, con la protezione della Wehrmacht. Il popolo italiano pagò un prezzo altissimo per la confusione politica e le ambiguità della monarchia e del regime. “Tutti traditi, nessuno traditore,” sintetizzò amaramente lo storico Indro Montanelli.
L’occupazione tedesca e la Repubblica di Salò
Con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, iniziò una fase di feroce repressione e terrore. I nazisti deportarono oltre 600.000 militari italiani nei campi di prigionia in Germania, ritenendoli “traditori” per non aver collaborato dopo l’armistizio. Intellettuali, antifascisti, ebrei, partigiani furono incarcerati, torturati, giustiziati. La Repubblica Sociale Italiana, pur formalmente guidata da Mussolini, era di fatto soggetta al volere di Berlino. L’RSI si distinse per la sua crudeltà repressiva: fu in questo periodo che si verificarono alcune delle stragi più atroci, come quella delle Fosse Ardeatine (335 civili fucilati a Roma) e di Sant’Anna di Stazzema (560 vittime, tra cui donne e bambini). Il Ministero della Cultura Popolare riattivò la censura e la propaganda, mentre le milizie fasciste repubblicane intensificavano la caccia ai partigiani. In questo scenario nacquero anche i Tribunali Speciali e le bande armate, spesso animate da vendette personali e spirito di rappresaglia. Mussolini, stanco e sempre più isolato, cercò di giustificare la RSI come “una repubblica sociale e del lavoro”, ma la realtà era quella di una dittatura sottomessa, macchiata di sangue.

La Resistenza: lotta armata, identità e memoria
A partire dal settembre 1943, nacque in Italia il movimento di Resistenza, formato da ex militari, giovani renitenti alla leva, socialisti, comunisti, cattolici e semplici cittadini. Le formazioni partigiane operarono in condizioni difficilissime, tra la sorveglianza nazista, il gelo, la fame, le delazioni. Eppure, riuscirono a sabotare vie di comunicazione, a liberare paesi e città, a costruire le prime esperienze di autogoverno democratico (Repubbliche partigiane). Organizzazioni come le Brigate Garibaldi, le formazioni di Giustizia e Libertà, le Brigate Matteotti e i partigiani cattolici diedero vita a un fronte eterogeneo ma unito dall’obiettivo di liberare il Paese. La Resistenza non fu solo una guerra armata, ma anche una battaglia culturale, simbolica, civile. Non mancò il contributo femminile: migliaia di donne fecero da staffette, infermiere, informatrici. Il 25 aprile 1945, giorno della liberazione di Milano e Torino, segnò il crollo definitivo del regime fascista e l’inizio della ricostruzione democratica. Come ricordò Sandro Pertini: “La libertà l’abbiamo conquistata con il sangue e con il sacrificio. Non dimenticatelo mai.”
Conclusione
La partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale fu segnata da errori politici, ambizioni infondate e profonde contraddizioni. Dalla folle alleanza con la Germania nazista alla disastrosa conduzione militare, dal tradimento dell’8 settembre alla Resistenza, il Paese visse sei anni di lacerazioni, distruzioni e rinascite. Quegli anni segnano ancora oggi la nostra identità nazionale: il crollo del fascismo aprì la strada alla Repubblica, alla Costituzione, alla democrazia. Ricordare quella storia, nei suoi aspetti più tragici e in quelli più eroici, è un dovere civile. Come scrisse Ferruccio Parri, ex capo partigiano e poi presidente del Consiglio: “La Resistenza non fu solo la fine di un regime: fu l’inizio di una coscienza nuova, di un popolo che riscoprì se stesso.”